Coast 2 Coast Italia in Mtb: Diario di viaggio - parte 1
Racconto di un viaggio in bikepacking da Ancona a Orbetello attraverso Marche, Umbria, Lazio e Toscana
La pausa forzata del lockdown mi ha fatto diventare quello che non sono mai stato: un pigrone.
Annoiato dall’eterna attesa nella stazione di Bologna centrale, dopo aver fatto confusione tra il binario 6 e il binario 6 “ovest” e, di conseguenza, aver perso il treno, mi domando cosa ci faccio qui.
Non avevo voglia di partire.
Dentro di me non c’era quel richiamo all’avventura sito in ogni viaggiatore che da troppo tempo non viaggia eppure eccomi qui, a sorvegliare a vista la BMC in attesa del prossimo treno.
E allora perché? Perché sottoporsi a tutto ciò?
Semplicemente dovevo darmi una svegliata. La pausa forzata del lockdown mi ha fatto diventare quello che non sono mai stato: un pigrone.
Un pigrone della peggior specie, quella del “wannabe”, quella del “mi piacerebbe ma” accompagnato da mille e più scuse.
Un pigrone con la consapevolezza di dover uscire dalla tanto comoda quanto pericolosa comfort-zone circoscritta tra le mura di casa, dove l’avventura più simile ad un viaggio è la ricerca su Netflix di una serie TV.
Datti una svegliata, Ale.
Il percorso
460 chilometri, 10.000 metri di dislivello, 4 uscite in MTB da inizio anno.
Parto così per questa avventura assolutamente non pianificata ma decisa di impulso, facendo mente locale su dove andare in soli 15 giorni di assoluta libertà.
Non sapevo nulla di questo C2C, le uniche informazioni in mio possesso erano qualche vago ricordo di un articolo letto tempo addietro, nel 2018.
Tanto meglio, non sono uno a cui piace informarsi (troppo) prima di fare un viaggio; reputo che l’ignoto, più di quanto non riservi già un viaggio solitario in bici, sia una componente fondamentale.
Scopro che la città di partenza è Ancona, per poi dividere a metà l’Italia su sterrati e strade secondarie fino a Orbetello.
Il Conero e l’Argentario, l’Adriatico e il Tirreno, l’Est e l’Ovest.
Partire da una spiaggia, attraversare la catena appenninica e fermarsi solo quando la strada lascerà posto alla spiaggia opposta.
Un viaggio nel cuore dell’Italia, selvaggio e rurale, in compagnia di se stessi, una bici e una tenda.
La partenza
Trenitalia mi offre come unica soluzione il classico viaggio della speranza fatto da 5 cambi in 12 ore, tipico di un ciclo-viaggiatore impossibilitato a smontare la bici.
Un viaggio nel viaggio.
Al mio arrivo Ancona mi accoglie con un temporale estivo non appena uscito dalla stazione ferroviaria.
È tardi, inizia a fare buio, non so ancora dove dormire questa sera e ho fame: decido così di prendere una camera in un hotel a 2 stelle davanti alla stazione e di cenare in un bar poco distante.
Domani sarà la partenza ufficiale.
Chi non ha testa non ha gambe.
Iniziare nuovamente a pedalare dopo mesi di stop con una bici che, seppur leggera e con un bagaglio minimale supera i 22kg, in una regione dove non c’è un tratto pianeggiante non suona come grande idea.
Inizio a rendermene conto quando imbocco la discesa per Portonovo, avendone poi conferma quando scopro che dovrò (ri)farla in salita. Maledetta.
Portonovo è una località costruita in una baia: mare cristallino, spiagge bianche e il Conero sempre in bella vista dietro di te.
Gironzolando mi imbatto in un sentiero che mi porta fino ad una torre settecentesca a ridosso della spiaggia, location ideale per il primo tuffo del 2020.
Sono a stomaco vuoto. Ero convinto di trovare un supermarket o un bar aperto per strada ma non è stato così.
Cerco di ignorare le prime avvisaglie di una crisi di fame, esaurendo le energie in cima al Conero.
Fortunatamente all’entrata di un paesino poco dopo la lunga discesa c’è un alimentari dove posso fare scorta di ogni genere di carboidrati.
Sono solamente a metà tappa del primo giorno e non sento più le gambe.
Il caldo picchia in testa, il fiato si accorcia, abbasso lo sguardo e noto il ciclocomputer con mille e più dati, mandandomi nel pallone più totale.
A cosa servono di preciso i dati quando si è in viaggio?
A cosa servono di preciso i dati ad una persona che non pedala da mesi?
La frequenza cardiaca? Si sa che sarà alta, è inutile vedere le zone di lavoro.
La cadenza? È già tanto che le gambe girino.
E poi attenzione, il peggiore di tutti: il dislivello!
Metro di paragone tra ciclisti degno quasi quanto il righello per gli adolescenti, non esiste cosa peggiore che guardare l’altimetria quando si è affaticati.
Decido di metterlo in tasca, non mi serve. Da qui a Osimo andrò a “sentimento”.
La raggiungo nel primo pomeriggio, superando le antiche mura romane che la circondano, in una tipica giornata di agosto: centro storico vuoto, nessuna automobile in giro, rumori di piatti e posate che provengono dalle finestre aperte, persone accaldate in cerca di ombra nei bar e nelle panchine. Le imito con la scusa di una birra brindando alla fine della tappa e inizio a cercare una sistemazione per la notte.
Senza bivaccare in giro, vengo messo in contatto con Viviana, una signora che con sua figlia permette ai “coaster” di piantare la tenda nel giardino di casa sua, a due passi dal centro (e 300 metri di dislivello).
Osimo - come tutte le altre città che incontrerò durante quest’avventura - è una città con una storia millenaria alle spalle, conservata splendidamente.
Grotte, labirinti sotterranei, fontane millenarie, chiese templari e prodotti tipici: un viaggiatore con più tempo del sottoscritto avrebbe l’occasione di fare un tuffo nella storia senza uscire dal centro abitato.
Avendo - purtroppo - una tabella di marcia da rispettare, mi accontenterò di bere un abbondante bicchiere di rosso Conero e di fare una passeggiata serale nella città Picena per eccellenza.
Una questione spinosa
Sento la sveglia suonare incessantemente. Con l’unico braccio fuori dal sacco a pelo cerco il telefono, ad occhi rigorosamente chiusi, per spegnerla. È quella della 7:00, l’ultima delle 4 impostate.
Merda, sono in ritardissimo!
Con ancora gli occhi appannati inizio a ritirare tutti gli oggetti sparsi qua e là mentre Viviana, vendendomi alzato, mi invita a far colazione dentro casa.
Il sole è già alto e si fa sentire con tutto il suo calore, d’altronde siamo ancora ad Agosto e non c’è una nuvola in cielo.
Dopo ore di preparativi, parto da Osimo alle 10 in punto, troppo tardi.
Dopo la lunga discesa mi butto nella prima strada sterrata, ci sono già 30 gradi e di ombra nemmeno a parlarne.
Voglio arrivare a Filottrano prima di mezzogiorno, così da acquistare un po’ di frutta, il pranzo per oggi e, se rimane un po’ di tempo, fare un giro del paese.
Tra una salita e un’altra sento la bici sempre meno reattiva e “pesante” dietro.
Sinceramente ho paura a guardare. Non adesso, non qui, non oggi.
La prima foratura del viaggio.
Un rovo grosso come il mio mignolo sulla spalla del mio povero Kenda.
Con ancora più ritardo accumulato sulla tabella di marcia, riparto dopo una ventina di minuti e un paio di sigarette.
Questi imprevisti dovrebbero divertirmi. Sono cose che animano un po’ la giornata, quelle problematiche da mettere in conto quando si fanno questi tipi di viaggio.
E perché sto continuando a guardare l’orologio?
Perché penso continuamente a finire la tappa e all’ora di arrivo pur sapendo che il viaggio, il vero viaggio, non è arrivare da A a B ma è tutto ciò che incontri strada facendo?
Non so rispondermi a queste domande. Fino a quando la mente torna indietro di qualche anno, quando conobbi un signore che, parlando di quanto fosse più bello viaggiare a piedi, mi disse che la bicicletta, pur essendo un mezzo così “primitivo”, è pur sempre un mezzo: ti mette fretta.
O forse sono io, ancora abituato alla vita frenetica di tutti i giorni, fatta continuamente da scadenze lavorative e impegni?
C’è un guado davanti a me. Per un attimo il pensiero di cadere volontariamente per rinfrescarmi mi attraversa la mente.
Prendo un po’ di rincorsa, mi alzo dalla sella, pedali pari e lo attraverso in scioltezza, salvo poi rischiare di cadere quando la pedalata successiva va a vuoto…
La catena. Ho perso la catena nel guado.
Questa è una lezione di vita: più si ha fretta, più questa ti fa “godere il momento”, il “qui e ora” tanto ricercato nella vita quotidiana.
32 gradi, sotto al sole, con le mani in acqua a cercare la catena.
Rimetto la falsamaglia e raggiungo Filottrano, nonostante tutto, poco prima di mezzogiorno.
È una città che conosco già, non perché ci sia già stato ma perché, da appassionato di storia, è stata teatro di duri scontri a nell’estate del ‘44.
All’uscita dal fruttivendolo conosco Giancarlo, un ex-coaster incuriosito dalla bicicletta carica di bagagli.
Si offre di farmi da guida turistica per la città, vorrei dirgli che è tardi e che sono affamato ma il suo entusiasmo è troppo coinvolgente per non accettare.
Camminando per le strette vie del centro storico, mi propone una visita al museo interamente dedicato alla battaglia di Filottrano. Anche se attualmente chiuso, conosce il proprietario che lo aprirebbe solamente per me. Accetto con piacere.
Il museo è opera di un solo uomo che ha dedicato la sua intera vita alla ricerca di informazioni e materiali, ed è incredibile la quantità di oggetti che è riuscito a reperire. Entrandoci è come entrare nella vita di Giovanni, anziano Filottranese che lui, quella battaglia, l’ha vissuta sulla propria pelle in tenera età.
Non so cosa sia più emozionante: le centinaia di fotografie, reperti e testimonianze scritte o sentirgli raccontare di quella tremenda settimana di scontri.
Terminata la visita, mi dirigo verso San Severino Marche; il caldo è torrido e non ci sono zone d’ombra. Arriverò a stento a Treia dove prenderò una camera d’albergo.
Non sarei riuscito a pedalare altri 6km per trovare i primi campi dove bivaccare.
Vai alla prossima puntata: Coast to Coast Italia seconda parte
